Bullismo a scuola
Il caso in una scuola romana: genitori e docenti non hanno fatto nulla per mettere fine alle vessazioni subite da un alunno. Ma il luoro ruolo educativo è un dovere “naturale” prima ancora che giuridico
di VALENTINA ERAMO *
Bullismo a scuola, pagano genitori e insegnanti. Ecco perché il loro ruolo è fondamentale
In una scuola italiana è accaduto l’inimmaginabile: i genitori e gli insegnanti, e cioè coloro che dovrebbero educare e istruire, rispettivamente, i figli e gli allievi offrendo loro l’esempio di comportamenti retti e irreprensibili, sono stati condannati, in solido col Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, a risarcire il danno fisico e psichico procurato da un alunno in danno di un altro alunno. Il primo, infatti, ha perseguitato il secondo – per mesi e mesi e, soprattutto, nella completa ignavia dantesca degli adulti – apostrofandolo con offese mortificanti sia in classe sia fuori dalla classe: un giorno ha deciso di passare dalle parole all’azione e, come premesso, nell’indifferenza generale del corpo docente, ma anche della famiglia d’origine, quindi del tutto indisturbato, ha procurato al suo compagno di banco “la rottura del setto nasale e contusioni della ragione orbitale”.
La responsabilità degli insegnanti verso gli alunni che subiscono bullismo a scuola è sancita dall’articolo 2048 del nostro codice civile che prescrive, espressamente, ai primi di vigilare sui secondi, sì da impedire, durante l’orario scolastico, la consumazione dei cosiddetti “fatti illeciti” perpetrati dagli allievi minorenni in danno di altri studenti (o terze persone in genere). Questa norma, in tutta onestà, ha il solo pregio di essere ovvia: non codifica principi di diritto strabilianti, ma immanenti, connaturati e impliciti al ruolo dell’insegnante che non può far finta di niente se qualcuno dei suoi allievi proferisce inurbanità in classe o, peggio, aggredisce fisicamente il compagno costringendolo alle cure del Pronto Soccorso.
Eppure, quello che può sembrare scontato, scontato non è: la sentenza n. 6919, pubblicata lo scorso 4 aprile 2018 dal Tribunale di Roma, descrive la trama di un film noir che avrebbe potuto trovare ambientazione in un contesto spettrale quale, per esempio, il sotterraneo di un parcheggio dove, a tarda notte, la vittima designata non ha (per copione) via di scampo. Invece il giudice estensore della sentenza ora citata ha ambientato la trama dell’aggressione subita dall’alunno in una scuola pubblica di Viterbo dove i vocaboli sconci, le minacce di morte e la rottura del setto nasale sono avvenuti alla luce del sole e sotto gli occhi indifferenti degli adulti. Che non solo non hanno vigilato, ma non hanno alzato un dito per prevenire, impedire e mettere fine alle vessazioni inflitte per mesi dall’allievo minorenne in danno della vittima, sempre minorenne. Il peggiore di tutti si è rivelato l’insegnante di matematica: pur docente di una scienza esatta, non ha saputo far tesoro dei suoi insegnamenti e ha mandato in tilt il sistema scolastico, provocandone il cortocircuito dei valori più elementari di civiltà: è diventato l’emblema del lassismo e il simbolo dell’omertà. Durante la sua lezione, infatti, il giovane aggressore ha iniziato a consumare e perpetrare la condotta illecita che, poi, ha completato dapprima nel cortile della scuola e successivamente fuori dal suo cancello, sferrando il colpo che ha mandato il compagno di classe in ospedale.
Non si sono rivelati migliori degli insegnanti i genitori del minore rinviato a giudizio dal GUP presso il Tribunale per i minorenni di Roma per l’illecito ascrittogli: anche costoro, titolari della responsabilità genitoriale anche in forza dell’articolo 316 del codice civile (oltre che dell’articolo 2048 del codice civile), si sono marchiati col contrassegno, disonorevole, della noncuranza perché non hanno neppure accompagnato il figlio in udienza, pur destinatario di un capo di imputazione grave. Eppure il suo papà era un avvocato abituato a calcare le aule di giustizia: si è difeso col peggiore degli argomenti, e cioè eccependo che la separazione e il divorzio dalla moglie lo avevano costretto, suo malgrado, a vivere a centinaia e centinaia di chilometri di distanza dal figlio impedendogli, per fatti concludenti, di educarlo convenientemente.
Se, in questo caso, scuola e famiglia – entrambe colpevoli di condotte “omissive” – hanno fallito perché si sono disinteressate dei compiti di cura verso i minori (vittime del reato o autori del reato), abdicando ai doveri di istruzione ed educazione costituzionalmente sanciti e connaturati al ruolo di insegnante e genitore, in molti altri casi hanno centrato, invece, l’obiettivo e hanno saputo orientare gli agiti dei minori affidati alle rispettive e complementari responsabilità. A Milano, per esempio, non mancano gli esempi virtuosi di Presidi che hanno aderito alla campagna di sensibilizzazione promossa da associazioni senza fine di lucro, quali il Rotary Club Milano, indirizzate a informare docenti e genitori sui rischi legati a modelli comportamentali degli adulti inadeguati verso i minori. Uno di questi comportamenti inappropriati consiste nel “non” accorgersi che i ragazzi rischiano di ammalarsi di “cyber – dipendenza” (alle volte passibile di degenerare in “cyber – bullismo”) perché vivono, ormai, “connessi” 24 ore su 24 alla rete Internet, persino alterando i ritmi sonno – veglia, sì da non perdersi un solo minuto del loro mondo virtuale. Un altro di questi comportamenti inadatti consiste nel “non” preoccuparsi di controllare i contenuti della posta elettronica dei propri ragazzi o delle comunicazioni via Facebook o Social Network alle quali questi ultimi, ingenuamente, partecipano col rischio di cadere nella rete dei pedofili o di diventare vittime del gioco d’azzardo.
Resta vero che è increscioso demandare allo Stato, tramite il potere legislativo e quello giurisdizionale, la prescrizione e l’applicazione di doveri “innati” al ruolo di insegnante e genitore: vigilare sugli allievi a scuola e orientarli al rispetto del prossimo, così come educare i figli a casa e incoraggiarli a diventare persone perbene e osservanti dei valori della civiltà sono, prima di tutto, doveri “naturali”, cioè legati alla natura umana, e, solo in un secondo tempo, doveri “giuridici”, cioè discendenti dalla codificazione legislativa. La dicotomia tra diritto naturale e diritto codificato ha interessato illustri filosofi e giuristi già secoli addietro, mentre oggi sembra superata dalla convinzione che tutto ciò che non è scritto in una norma di legge è permesso. Ma non è così. Andando di questo passo lo Stato dovrà prescriverci anche le norme più elementari di condotta portandoci via, ma a buona ragione, l’autonomia di pensiero e di azione propria dei regimi democratici.
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