Bologna, il liceo fai-da-te di Confindustria

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Bologna, il liceo fai-da-te di Confindustria

Bologna, il liceo fai-da-te di Confindustria

 

Corsi per metà in inglese, curriculum orientato sulle materia scientifiche. Ma manca ancora il sì del ministero

di ILARIA VENTURI

 

Apre a Bologna il liceo degli industriali. Sarà un percorso di quattro anni, si chiama “Steam international”, ed è mutuato da un modello inaugurato lo scorso anno dalla provincia di Trento in un centro di formazione professionale a Rovereto. Confindustria l’ha presentato alle famiglie a metà gennaio, per raccogliere le pre-iscrizioni in vista dell’avvio delle lezioni a settembre. La sede della nuova scuola sarà in via Cartoleria. L’Associazione industriali parla di un progetto formativo in divenire e non ancora approvato dal ministero all’Istruzione. Altro non rivela, ma l’iniziativa è molto avanti: la domanda per ottenere la parità è già stata presentata all’ufficio scolastico, così come è stato avviato l’iter per essere riconosciuti a livello ministeriale, come sperimentazione uguale a quella di Rovereto, già partita. E in effetti l’innovazione del percorso formativo non manca.

“Steam” è l’acronimo per Science, Technology, Engineering, Arts, Mathematics: un approccio che punta sulle materie scientifiche, ma non trascura la parte umanistica, in linea con la necessità di un “Rinascimento meccatronico” teorizzato dagli economisti, di un ingegnere-filosofo necessario al futuro dell’industria. Dopo avere spinto forte sull’istruzione tecnica, dopo i tanti appelli e i progetti con gli istituti pubblici, Confindustria ha deciso di farsi anche una scuola tutta sua: sarà privata paritaria (il riconoscimento è atteso entro giugno), con otto borse di studio per i ragazzi meritevoli, provenienti da famiglie in difficoltà economiche, che copriranno il costo di iscrizione. Se il progetto andrà in porto dovrebbe partire una prima classe.

Cosa si studierà? Il percorso sarà di tipo liceale, ad indirizzo scientifico-scienze applicate, col 50% delle lezioni in inglese, un minimo di 6 ore al giorno, 300 di alternanza scuola-lavoro in imprese d’ogni ambito, dal medicale all’automotive. Alla fine dei quattro anni gli studenti otterranno la doppia Maturità: il diploma liceale, con un anno d’anticipo, e quello degli esami inglesi A-Level (Cambridge international). La didattica punterà molto sul saper fare. «Lo scopo è creare nuove competenze, abituando i ragazzi a ragionare, trasversalmente, su come risolvere un problema insieme ai compagni», scrive il presidente Alberto Vacchi nella lettera di invito alla presentazione del nuovo liceo mandata alle scuole medie e che ha fatto arrabbiare il sindacato di base Usb («la scuola di Confindustria pubblicizzata dagli istituti comprensivi statali»).

I presidi delle superiori si dicono sorpresi, il progetto ancora non è stato diffuso. E c’è già chi teme un’invasione di campo.

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Sergio Marchionne
Sergio Marchionne l’incompreso

Sergio Marchionne l’incompreso

 

La “filosofia Marchionne” ha dato risultati evidenti in Fiat: era un’impresa sull’orlo del fallimento, è ora una solida multinazionale. L’Italia invece l’ha vista come una minaccia e l’ha rigettata. Ma così non si vincono le sfide della globalizzazione.di Fabiano Schivardi (Fonte: Lavoce.info)

Come ha cambiato la Fiat

La filosofia di Sergio Marchionne alla guida di Fiat-Fca può essere riassunta così: la sfida della globalizzazione si può vincere giocandola apertamente, senza sostegno pubblico e senza contare troppo su un mercato domestico ormai aperto alla concorrenza. Ma per farlo è necessario avere gli strumenti gestionali per competere alla pari con una concorrenza agguerrita.

Questa filosofia aveva conseguenze radicali per l’impresa prima di tutto, ma anche per l’Italia in generale. Se per Fca possiamo dire che la sfida è stata vinta, il Paese l’ha invece percepita come una minaccia e, con qualche rara eccezione, l’ha rigettata.

Marchionne ha rivoltato la vecchia Fiat come un calzino. Arrivato in un’impresa tecnicamente fallita e con una proprietà nel mezzo di un difficile passaggio generazionale, ha fatto piazza pulita di pratiche gestionali ormai vecchie e di un rapporto con lo stato basato su scambi sussidi-occupazione. Queste caratteristiche, funzionali nel mercato relativamente protetto del secondo dopoguerra, erano diventate una pietra al collo in quello competitivo e con lo stato meno invasivo (e più squattrinato) degli anni Novanta. Ma per cambiare una mentalità così radicata ci voleva un rivoluzionario. Il merito della proprietà è stato quello di individuarlo in Marchionne, allora una figura relativamente nuova nell’universo Fiat, e dargli carta bianca.

In questi giorni, decine di articoli hanno ripercorso i suoi 14 anni alla guida del gruppo. Non mi dilungo a raccontarli di nuovo. Ricordo solo due passaggi particolarmente interessanti. Il primo riguarda la decisione di chiudere l’impianto di Termini Imerese, giudicato economicamente insostenibile. L’allora ministro Sacconi propose implicitamente il vecchio scambio: un prolungamento degli incentivi alla rottamazione in cambio del mantenimento dell’impianto siciliano. La risposta di Marchionne fu no: un’impresa che compete su mercati internazionali non può permettersi di avere impianti strutturalmente in perdita. Questa logica, quasi banale nella sua semplicità, rappresentò una rottura epocale nei rapporti fra politica e impresa. Fiat smetteva di contare sull’aiuto pubblico, ma anche di farsi carico di obiettivi che sono propri dello stato, come promuovere lo sviluppo in certe aree del paese. Fu uno shock la cui importanza è ancora poco compresa.

Il secondo, più noto, è l’uscita dal sistema di contrattazione collettiva e la stipula di contratti aziendali. La scelta rifletteva la necessità di governabilità degli impianti. Fca si impegnava a rinnovare le fabbriche, adottando tecniche gestionali all’avanguardia. Ma queste tecniche richiedevano nuovi rapporti con i lavoratori, in particolare che garantissero la certezza di quanto contrattato (l’esigibilità dei contratti). Dato che il sistema di contrattazione collettiva non garantiva queste condizioni, Fca l’ha abbandonato, uscendo da Confindustria e, anche in questo caso, rompendo una consuetudine congenita alla vecchia Fiat.

Ma il paese non l’ha seguito

I risultati della “filosofia Marchionne” sono evidenti. La vecchia Fiat, sulla quale aveva l’autorità per imporla, l’ha abbracciata, compresa la maggioranza dei lavoratori italiani che ha votato nei referendum sui contratti. Marchionne ha dimostrato coi fatti che la sfida si può vincere. Un’impresa allora sull’orlo del fallimento è oggi una multinazionale solida e ben posizionata sulle due sponde dell’Atlantico, con una serie di marchi che hanno spostato il baricentro sul segmento premium. Il “piano Marchionne” non è stato completamente portato a termine. Mancano in particolare un’ulteriore aggregazione, per superare la quota minima di 6 milioni di veicoli che lui stesso aveva stabilito, e un rafforzamento della presenza nel mercato più dinamico del mondo, l’Asia. Ma sono dettagli rispetto al quadro d’insieme: la svolta di Fiat entrerà sicuramente a far parte dei casi di successo studiati nelle business school di tutto il mondo.

Il paese ha invece rigettato la “filosofia Marchionne”. Non credo che il suo obiettivo fosse di modernizzare l’Italia: a lui interessava rilanciare Fiat. Ma sicuramente sperava che il suo progetto diventasse contagioso. Da qui lo stupore, prima, e l’amarezza, poi, di fronte alle critiche contro la sua gestione. E il conseguente disimpegno dal dibattito italiano (e forse, lo spostamento del baricentro di Fca fuori dal paese). Ci ha messo un po’, ma quando l’ha capito, ne ha preso atto: in Italia è maggioritaria la quota di persone che pensa che la sfida della globalizzazione si possa vincere per decreto.

 

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