COSTRUISCI IL TUO FUTURO

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COSTRUISCI IL TUO FUTURO

COSTRUISCI IL TUO FUTURO

Centro ECP dell’università Pegaso

 

 

Finiti gli esami di maturità la prima preoccupazione dei futuri studenti universitari è la scelta dell’Università e della “facoltà”

Orientarsi tra le moltissime facoltà del panorama universitario, valutare i corsi di laurea e cominciare a costruire il proprio futuro partendo dall’istruzione. Scegliere il giusto corso di laurea è un dilemma che vivono molti studenti all’indomani dell’esame di maturità.

La scelta della giusta università non è affatto semplice perché sono molti i fattori in gioco: è infatti necessario trovare un giusto compromesso tra talenti innati e aspirazioni e fra interessi e ambizioni, riservando un occhio di riguardo alle richieste del mondo professionale.

Si tratta di un momento molto importante anche da un punto di vista Economico.

Per venire incontro alle esigenze dei giovani e delle rispettive famiglie, l’Università Telematica Pegaso di Napoli propone

NO NUMERO CHIUSO iscrizioni sempre aperte

il programma predisposto da UNIPEGASO , per i giovani studenti d’età compresa tra i 17 e i 20 anni che si iscrivono per la prima volta all’Università.

A soli 1.000 euro (in tre rate) per ogni anno accademico, anziché la quota ordinaria di 3.000 euro.

FUTURO SICURO: una giusta scelta permette di non perdere tempo con ripensamenti o, nel peggiore dei casi, con l’abbandono degli studi.

Per iscrizione chiamare il 324.69.69.699 – 0521.57.39.63

oppure inviare una mail: unitel@centrostudiparini.it

 

 

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Una riflessione sulla scuola italiana

Una riflessione sulla scuola italiana

Scritto da Maria Mancusi

Raccontare la scuola è come raccontare il mondo: l’impressione è sempre la stessa, quella  di rimanere in superficie a guardare la punta di un iceberg, senza la consapevolezza di quello che si agita o si potrebbe esplorare nei fondali. E il primo errore di valutazione, forse, lo abbiamo già fatto dalla prima riga. Aggiustiamo allora il tiro: la scuola non è come il mondo. La scuola è il mondo, quello dell’oggi, ma soprattutto quello del domani. Ci racconta che cosa siamo e che cosa saremo o avremo deciso di essere. Sono anni che l’informazione poco si occupa di questa istituzione e che, quando lo fa, si concentra, esclusivamente e per puro dovere di cronaca, a parlare di quello che “ha” non di quello che “è”, ammesso che  la scuola “sia” ancora qualcosa. E la gente registra certe notizie senza ascoltarle, senza più dare loro un valore, per cui in merito all’argomento son decenni che circolano sempre le stesse opinioni: insegnanti fannulloni e incapaci o, nel migliore e più compatito dei casi, precari, alunni perditempo o bulli, strutture fatiscenti.

“Vecchia” è il solo aggettivo associato alla scuola che però la rappresenti autenticamente, al di là di ogni strumentalizzazione e del pessimismo più nero. La scuola è vecchia, ma non nel senso che vi aspettereste. Non per la classe docente che ormai supera in media i sessant’anni o per gli edifici malridotti. Non è questo il motivo che la rende decrepita. Anche se è quello che vogliono farci credere. Se ciò fosse vero, allora per rinverdirla basterebbe un colpo di spugna, basterebbe davvero inventarsi, come è stato fatto negli ultimi mesi, registri e libri di testo in formato elettronico o iscrizioni on line. Ma non è così.

Si invecchia quando si smette di sperare. E la scuola italiana ha smesso di farlo. Demagogicamente e populisticamente sarebbe semplice riempire questo articolo di tutti quelli che sono i suoi problemi. Si potrebbe cominciare dalla mancanza di carta igienica, di gesso per le lavagne, di inchiostro e carta per  stampanti e fotocopie,  di combustibile per i riscaldamenti,  di pc per insegnati e alunni, fatto quest’ultimo che la dice lunga sulla scuola del futuro, quella giovane, quella dove basta un click. Si potrebbe parlare di scuole “arrangiate” in edifici che erano palazzi privati, dove gli alunni, mai meno di venti per classe, vengono stipati in cucine e bagni oppure di strutture non più sicure e che andrebbero ristrutturate. Ma nemmeno tutte queste costatazioni sarebbero capaci di rendere vecchia la scuola. Le mancanze economiche e strutturali danneggiano la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ma di per sé non sono responsabili del fatto che oggi la scuola appaia come un’anziana signora. La sua età non è data da un fattore esterno, per cui, sì, ci auguriamo che si possano trovare fondi da destinare a questa istituzione per sanare le sue carenze e che l’avvento di strumenti elettronici possa ottimizzare la formazione dei ragazzi – e per far ciò andrebbe completamente riprogrammata la didattica e riformulati i libri di testo, perché la probabilità più alta è che la scuola telematica del futuro sia una brutta figlia di quella attuale, nata da una semplice triturazione di programmi e contenuti, il cui fine consiste solo nella lotta alla sopravvivenza per le case editrici, piuttosto che in un investimento di energie per concepire nuove possibilità di studio –  ma non riteniamo che la questione si risolva in questo modo.

Bisogna andare a fondo e nel fondo della scuola, alle sue basi, dentro e fuori di essa, c’è un sostrato umano tutto da analizzare. È l’umano che andrebbe esplorato, alla ricerca di questa vecchiaia che sta cambiando la scuola. E le tipologie umane che la popolano sono almeno tre: quelli che comandano, quelli che brigano, quelli che subiscono. Scontato? Forse che sì, forse che no vi risponderebbe, se potesse parlare, D’Annunzio.

Al primo gruppo appartengono sia i dirigenti e sia i genitori – gli uni alla ricerca di iscritti, perché, per chi non lo sapesse, oramai la scuola deve vendere se stessa e la cosa non sarebbe tanto deplorevole, se a essere in vendita fosse la conoscenza,  gli altri sempre pronti a insegnare ai docenti parassiti il loro lavoro. Entrambi hanno smarrito quel sentimento che dove si fa formazione, alla vita e alla professione, non dovrebbe andare mai perso: la fiducia, nelle persone che insegnano e nelle materie che si insegnano.

Al secondo gruppo appartengono gli insegnati, quelli “over sessanta” e “over venticinque”. I primi costituiscono l’80% della classe insegnate e per lo più sono stanchi del loro lavoro, sono delusi da una professione che non sentono più appartenere loro e che continuano a fare perché qualcuno ha allungato l’età pensionabile. Del resto non potrebbe essere diverso. Loro hanno vissuto la scuola quando questa ancora faceva sognare, quando ancora era un valore. I secondi, una percentuale minima, vivono la scuola come un miraggio. Pagati sempre in ritardo, continuamente peregrini da un istituto all’altro, la loro attività di insegnamento è sempre una meteora, luminosa, affascinate, ma destinata a durare poco. Eppure loro ci credono, sono gli unici che ci credono ancora. Hanno sfidato il ludibrio familiare e pubblico quando hanno scelto questo mestiere e se lo hanno fatto, a differenza di quanto avveniva per il passato, lo hanno fatto solo per passione, solo per seguire una visione, quella dell’eternità delle emozioni che si trasmettono e di quelle che si ricevono dagli allievi. Eh, sì, perché la scuola prima d’insegnare dovrebbe emozionare. Che ne sarebbe di Dante, Shakespeare, Leopardi, senza emozioni? Ma che ne sarebbe anche delle conoscenze matematiche, fisiche, chimiche se perdessimo di vista l’entusiasmo di Galileo quando parla del mondo come di un libro da imparare a leggere, perché Dio ha dato solo all’uomo questa possibilità? Nulla, non ne sarebbe nulla. Esattamente quello che accade oggi. Perché?

Per rispondere veniamo all’ultima tipologia umana che si rintraccia nel grande zoo scolastico, gli studenti: quelli che subiscono le aspettative dei genitori, a cui fino a qualche tempo fa interessava la felicità e la maturazione dei figli, prima che esse venissero identificate con un conto in banca, che subiscono le frustrazioni dei docenti, quelli che non ne possono più e quelli appena lattanti che inorridiscono dinanzi all’apatia di questi ragazzi che spegne i loro furori, quelli che subiscono le ansie della società che li partorisce. Gli studenti. È in loro che si concretizza lo spettro del vecchio. Se ai trentenni di oggi i ritmi e le esigenze della nostra società hanno ucciso i sogni, agli studenti la precarietà della vita e l’indeterminatezza del futuro li ha negati completamente.

E una società che nega i sogni nega il futuro.

Una scuola che nega la speranza è una scuola vecchia.

Per cui eccoli qui i ragazzi della scuola, nella scuola: spigliati fino al disprezzo delle regole e fragili nei loro sogni di carta, nella loro disillusione che diventa angoscia esistenziale.  E come dare loro torto? Sedere tra i banchi è solo aspettare un diploma che li renderà disoccupati, in una società che non sa riprogrammarsi e che non ha insegnato loro né la gioia del sogno né la fatica del reinventarsi.

Il loro disincanto, oggi, è la colpa peggiore.

Sbaglierebbero quanti tendessero a fare di questo discorso un ragionamento di stampo morale, perché una scuola vecchia, vecchia nei giovani che dovrebbero pensare propositivamente al futuro, è un problema ben più che etico, è un problema economico. Una scuola vecchia non è forse  il frutto di una società che ha smesso di investire, di credere nello sviluppo, di credere in una possibilità, di una società che parcheggia le leve del futuro in un asilo di falsi bisogni e di vuote ambizioni?

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Scuola, giovani iperconnessi.

Scuola, giovani iperconnessi.

“Una vita nei social, ma la tv resiste”

 

Il ritratto della Generazione Z, i nativi tecnologici che passano oltre cinque ore al giorno davanti a uno schermo. L’indagine su novemila ragazzi interpellati dalla comunità studentesca ScuolaZoo

di ILARIA VENTURI

 

Scuola, giovani iperconnessi, passano più di cinque ore al giorno davanti a uno schermo, sia ecco il pc o il telefonino, il tablet o la tv. Lo smartphone? “Dalla mattina fino all’infinito”: non lo spengono di notte, è la prima cosa che guardano al risveglio. “Ormai è un gesto automatico”, ammettono. Chattano, ascoltano musica, seguono gli youtuber. E leggono, ma praticamente solo online. Vivono nei social, eppure non disdegnano la televisione che non ha perso appeal, anzi si prende una sua rivincita tra i ragazzi rispetto a chi la voleva vedere dimenticata.
Ritratto della Generazione Z (o dei Centennial): i nati tra il 1995 e il 2010, fratelli minori dei Millenials, quelli che usano Internet sin dalla nascita. Ne sono stati fatti tanti, ci prova ora una ricerca condotta da ZooCom e da Havas Media attraverso un sondaggio realizzato sul profilo di ScuolaZoo, che ha coinvolto 9mila giovani dai 13 ai 35 anni, focus group con 72 ragazzi di Milano, Roma, Napoli e Padova e interviste a professionisti, animatori e manager della community studentesca.

“Siamo quelli delle spunte blu di Whatsapp, non conosciamo l’attesa in una relazione. Siamo quelli delle storie su Instagram e quelli di Snapchat: viviamo il presente come non mai. Ci connettiamo a tutto, ci soffermiamo su poco, ci appassioniamo parecchio”, aveva raccontato Giacomo Mazzariol, classe 1997, autore del recente libro “Gli squali”, nel suo viaggio su Repubblica. Questa nuova indagine tenta di capire i come e i perché: “Perché questi ragazzi accedono a Internet? Cosa fanno sui social media? Come entrano in contatto con le nuove tecnologie digitali? “Prima di indagare sulle cause e i motivi della presenza – si legge nella premessa – è necessario capire il momento in cui i ragazzi entrano per la prima volta in contatto con un dispositivo connesso a Internet. L’accesso alle piattaforme digitali avviene come un imprinting, da subito: non è infatti raro vedere dei bambini di 3-5 anni ipnotizzati dai video di Peppa Pig su Youtube”. Nativi tecnologici, dunque.

Lo smartphone? “E’ parte del corpo”
Lo smartphone è il contenitore di tutti i loro interessi. Lo usano per divertirsi (“cazzeggiare” riporta l’indagine riportando le motivazioni di quasi un quarto degli intervistati), per chattare (un quinto), per ascoltare la musica (dal 17 al 21% a seconda delle età), per guardare video (dal 14 al 17%) e per fare ricerche on line (dall’11 al 18%).

Davanti a uno schermo (telefonini, pc, tv, tablet) in media passano più di 5 ore al giorno. Chi ha tra i 13 e i 18 anni ci sta 5 ore e dieci minuti; chi tra i 19 e i 23 anni passa al cellulare o al pc cinque ore e mezze, poco di più chi ha tra i 24 e i 34 anni: 5 ore e tre quarti. Il cellulare è usato principalmente per passare da un social a un altro.

Il più utilizzato, per condividere passioni e interessi personali, è Instagram (99,58%): viene considerato importante “anche la dimensione del gossip: sono diventati dipendenti dalle storie attraverso le quali possono “spiare” amici e vip”. Segue Facebook (72,43%), anche se i più giovani lo usano solo occasionalmente: il 13% degli under 18 dice di non usarlo “perché infastidito dal fatto che ci sono anche i suoi parenti”. You Tube rimane uno dei canali preferiti e Snapchat (52%), racconta l’indagine, resiste grazie ai format video che alimentano le Instagram story. I più piccoli, per “mettersi un po’ in mostra”, usano Musically (18,38%) e ThisCrush (16%). Al contrario, Twitter (usato per le news politiche e per seguire i grandi show) e Linkedin vengono usati dai più grandi.

I like? Niente è casuale…
Quando esprimono una preferenza sui social perché lo fanno? Niente è casuale, spiega l’Indagine. Sono emersi cinque significati ricorrenti: la visibilità (avere tanti follower è sinonimo di desiderabilità, cuoricini e like influenzano l’autostima del 65% dei ragazzi intervistati); la conquista (un modo per corteggiare: metto tutti i like alle sue foto così mi nota, non lo faccio così “schiatta”); l’amicizia (si chiama easy like, non importa il contenuto, appena l’amico pubblica io gli assicuro un like); l’update (per mantenere attivi i rapporti). Infine c’è il “no like” usato per esprimere indifferenza.

Cosa cercano e inseguono sui social?
Abbigliamento, sport, cibo e bevande sono le tipologie più seguite via social. Il motivo? “Cercare qualcosa che stupisca e che scateni una reazione”. In media i ragazzi seguono 17 marche, senza particolari differenze per età. Instagram è il canale degli influencer “che si seguono perché pubblicano dei contenuti interessanti”.

 

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Una riflessione sulla scuola italiana

Una riflessione sulla scuola italiana

 

Scritto da Maria

 

Raccontare la scuola è come raccontare il mondo: l’impressione è sempre la stessa, quella  di rimanere in superficie a guardare la punta di un iceberg, senza la consapevolezza di quello che si agita o si potrebbe esplorare nei fondali. E il primo errore di valutazione, forse, lo abbiamo già fatto dalla prima riga. Aggiustiamo allora il tiro: la scuola non è come il mondo. La scuola è il mondo, quello dell’oggi, ma soprattutto quello del domani. Ci racconta che cosa siamo e che cosa saremo o avremo deciso di essere. Sono anni che l’informazione poco si occupa di questa istituzione e che, quando lo fa, si concentra, esclusivamente e per puro dovere di cronaca, a parlare di quello che “ha” non di quello che “è”, ammesso che  la scuola “sia” ancora qualcosa. E la gente registra certe notizie senza ascoltarle, senza più dare loro un valore, per cui in merito all’argomento son decenni che circolano sempre le stesse opinioni: insegnanti fannulloni e incapaci o, nel migliore e più compatito dei casi, precari, alunni perditempo o bulli, strutture fatiscenti.

“Vecchia” è il solo aggettivo associato alla scuola che però la rappresenti autenticamente, al di là di ogni strumentalizzazione e del pessimismo più nero. La scuola è vecchia, ma non nel senso che vi aspettereste. Non per la classe docente che ormai supera in media i sessant’anni o per gli edifici malridotti. Non è questo il motivo che la rende decrepita. Anche se è quello che vogliono farci credere. Se ciò fosse vero, allora per rinverdirla basterebbe un colpo di spugna, basterebbe davvero inventarsi, come è stato fatto negli ultimi mesi, registri e libri di testo in formato elettronico o iscrizioni on line. Ma non è così.

Si invecchia quando si smette di sperare. E la scuola italiana ha smesso di farlo. Demagogicamente e populisticamente sarebbe semplice riempire questo articolo di tutti quelli che sono i suoi problemi. Si potrebbe cominciare dalla mancanza di carta igienica, di gesso per le lavagne, di inchiostro e carta per  stampanti e fotocopie,  di combustibile per i riscaldamenti,  di pc per insegnati e alunni, fatto quest’ultimo che la dice lunga sulla scuola del futuro, quella giovane, quella dove basta un click. Si potrebbe parlare di scuole “arrangiate” in edifici che erano palazzi privati, dove gli alunni, mai meno di venti per classe, vengono stipati in cucine e bagni oppure di strutture non più sicure e che andrebbero ristrutturate. Ma nemmeno tutte queste costatazioni sarebbero capaci di rendere vecchia la scuola. Le mancanze economiche e strutturali danneggiano la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, ma di per sé non sono responsabili del fatto che oggi la scuola appaia come un’anziana signora. La sua età non è data da un fattore esterno, per cui, sì, ci auguriamo che si possano trovare fondi da destinare a questa istituzione per sanare le sue carenze e che l’avvento di strumenti elettronici possa ottimizzare la formazione dei ragazzi – e per far ciò andrebbe completamente riprogrammata la didattica e riformulati i libri di testo, perché la probabilità più alta è che la scuola telematica del futuro sia una brutta figlia di quella attuale, nata da una semplice triturazione di programmi e contenuti, il cui fine consiste solo nella lotta alla sopravvivenza per le case editrici, piuttosto che in un investimento di energie per concepire nuove possibilità di studio –  ma non riteniamo che la questione si risolva in questo modo.

Bisogna andare a fondo e nel fondo della scuola, alle sue basi, dentro e fuori di essa, c’è un sostrato umano tutto da analizzare. È l’umano che andrebbe esplorato, alla ricerca di questa vecchiaia che sta cambiando la scuola. E le tipologie umane che la popolano sono almeno tre: quelli che comandano, quelli che brigano, quelli che subiscono. Scontato? Forse che sì, forse che no vi risponderebbe, se potesse parlare, D’Annunzio.

Al primo gruppo appartengono sia i dirigenti e sia i genitori – gli uni alla ricerca di iscritti, perché, per chi non lo sapesse, oramai la scuola deve vendere se stessa e la cosa non sarebbe tanto deplorevole, se a essere in vendita fosse la conoscenza,  gli altri sempre pronti a insegnare ai docenti parassiti il loro lavoro. Entrambi hanno smarrito quel sentimento che dove si fa formazione, alla vita e alla professione, non dovrebbe andare mai perso: la fiducia, nelle persone che insegnano e nelle materie che si insegnano.

Al secondo gruppo appartengono gli insegnati, quelli “over sessanta” e “over venticinque”. I primi costituiscono l’80% della classe insegnate e per lo più sono stanchi del loro lavoro, sono delusi da una professione che non sentono più appartenere loro e che continuano a fare perché qualcuno ha allungato l’età pensionabile. Del resto non potrebbe essere diverso. Loro hanno vissuto la scuola quando questa ancora faceva sognare, quando ancora era un valore. I secondi, una percentuale minima, vivono la scuola come un miraggio. Pagati sempre in ritardo, continuamente peregrini da un istituto all’altro, la loro attività di insegnamento è sempre una meteora, luminosa, affascinate, ma destinata a durare poco. Eppure loro ci credono, sono gli unici che ci credono ancora. Hanno sfidato il ludibrio familiare e pubblico quando hanno scelto questo mestiere e se lo hanno fatto, a differenza di quanto avveniva per il passato, lo hanno fatto solo per passione, solo per seguire una visione, quella dell’eternità delle emozioni che si trasmettono e di quelle che si ricevono dagli allievi. Eh, sì, perché la scuola prima d’insegnare dovrebbe emozionare. Che ne sarebbe di Dante, Shakespeare, Leopardi, senza emozioni? Ma che ne sarebbe anche delle conoscenze matematiche, fisiche, chimiche se perdessimo di vista l’entusiasmo di Galileo quando parla del mondo come di un libro da imparare a leggere, perché Dio ha dato solo all’uomo questa possibilità? Nulla, non ne sarebbe nulla. Esattamente quello che accade oggi. Perché?

Per rispondere veniamo all’ultima tipologia umana che si rintraccia nel grande zoo scolastico, gli studenti: quelli che subiscono le aspettative dei genitori, a cui fino a qualche tempo fa interessava la felicità e la maturazione dei figli, prima che esse venissero identificate con un conto in banca, che subiscono le frustrazioni dei docenti, quelli che non ne possono più e quelli appena lattanti che inorridiscono dinanzi all’apatia di questi ragazzi che spegne i loro furori, quelli che subiscono le ansie della società che li partorisce. Gli studenti. È in loro che si concretizza lo spettro del vecchio. Se ai trentenni di oggi i ritmi e le esigenze della nostra società hanno ucciso i sogni, agli studenti la precarietà della vita e l’indeterminatezza del futuro li ha negati completamente.

E una società che nega i sogni nega il futuro.

Una scuola che nega la speranza è una scuola vecchia.

Per cui eccoli qui i ragazzi della scuola, nella scuola: spigliati fino al disprezzo delle regole e fragili nei loro sogni di carta, nella loro disillusione che diventa angoscia esistenziale.  E come dare loro torto? Sedere tra i banchi è solo aspettare un diploma che li renderà disoccupati, in una società che non sa riprogrammarsi e che non ha insegnato loro né la gioia del sogno né la fatica del reinventarsi.

Il loro disincanto, oggi, è la colpa peggiore.

Sbaglierebbero quanti tendessero a fare di questo discorso un ragionamento di stampo morale, perché una scuola vecchia, vecchia nei giovani che dovrebbero pensare propositivamente al futuro, è un problema ben più che etico, è un problema economico. Una scuola vecchia non è forse  il frutto di una società che ha smesso di investire, di credere nello sviluppo, di credere in una possibilità, di una società che parcheggia le leve del futuro in un asilo di falsi bisogni e di vuote ambizioni?

 

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