Bullismo? La parola agli studenti

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Bullismo? La parola agli studenti

Bullismo? La parola agli studenti

 

Il confronto in diretta video tra lo scrittore Paolo Di Paolo e una delle migliaia di classi che partecipano a Repubblica@Scuola: “Abbiamo visto le immagini violente – dicono i ragazzi del liceo Azuni di Sassari – ma quello che chiediamo è che la scuola insegni a rispettare gli altri”. Tra il ruolo degli insegnanti e l’invadenza dei genitori

di CARMELO LEO

 

Bullismo? La parola agli studenti che diventano aguzzini dei propri coetanei o travalicano i ruoli per mortificare i loro insegnanti. Genitori che puntano il dito contro i docenti. E sullo sfondo i cellulari, che danno risonanza mediatica a ogni fatto. I recenti gravi casi, a Lucca e in tante altre città, alimentano il dibattito sul fenomeno del bullismo in Italia. Tra chi pensa che comportamenti del genere siano una conseguenza del ceto di provenienza e chi, invece, analizza le violenze in modo trasversale, legandole ai rapporti degli studenti con genitori e insegnanti. Una discussione spesso raccontata da adulti per altri adulti, senza interpellare i ragazzi. E’ appunto per questo che Repubblica ha pensato di mettere a confronto proprio i ragazzi con alcuni degli intellettuali che in questi giorni hanno riflettuto sul tema.
Momenti di imbarazzo, poi uno rompe la prudenza e, in un certo senso, accusa: “La scuola oggi sta diventando una caricatura, viene rappresentata così. Nel senso che se ne enfatizzano solo i lati negativi. Il problema esiste, ma non bisogna mai generalizzare. Non c’è mai stato bullismo nella nostra classe, ad esempio”. Ma cos’è il bullismo? Non è solo trasgredire le regole civili, spiega Di Paolo, ma far sì che ciò scaturisca in violenza, o in contrasti forti che rendono difficile stabilire relazioni all’interno di un gruppo. Allora, si scopre, che forse il bullismo è qualcosa di più della mera violenza, e che anche un approccio verbale può rientrare in quella categoria.
“Io in questi anni di scuola – interviene Claudia – ho imparato di più con le relazioni sociali che con lo studio vero e proprio. E ho capito che il rispetto non passa solo dalla forma, dal dare del ‘lei’ ai docenti”. Per questo, spiega la ragazza, quando uno studente intima al suo insegnante di inginocchiarsi, non è il gesto di travalicare il ruolo dell’insegnante ad essere bullismo. Ma il mancare di rispetto ad un altro essere umano.

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La scuola, dunque, come microcosmo che fornisce conoscenze ma anche strumenti per costruire rapporti con gli altri. Una responsabilità che grava, in gran parte, sulle spalle dei professori. A volte considerati troppo autoritari e fuori dal tempo, altre eccessivamente permissivi: “La scuola sta soffrendo – ammette in aula il professor Altana – e sta venendo meno soprattutto il rapporto tra noi docenti. Una volta eravamo più disponibili tra di noi, ci incontravamo nei corridoi e parlavamo dei ragazzi, dei loro progressi e dei loro problemi. Ora discorsi del genere vengono affrontati solo nei consigli di classe”.

Sempre più informati sull’andamento degli studenti, invece, sono i genitori. Che spesso incolpano i professori di quello che accade tra le mura scolastiche. Sia per proteggere i figli, ma anche perché un brutto voto al ragazzo viene vissuto come una bocciatura indiretta al genitore: “Spesso inoltre – interviene un altro studente – i comportamenti dei genitori sono legati alla paura che il proprio figlio venga bullizzato per i suoi brutti voti”. Un’invadenza, la loro, che però svilisce il ruolo dell’educatore: “Un insegnante può sbagliare – conclude Di Paolo – ma mettere in discussione la sua autorevolezza ha solo conseguenze negative”.

 

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Il 20 giugno al via la maturità per 509mila studenti

Il 20 giugno al via la maturità per 509mila studenti

Stenta a decollare il progetto Clil, cioè la materia svolta in lingua straniera. Sarà l’ultima prova con le vecchie regole

di SALVO INTRAVAIA

 

La macchina della maturità scalda i motori.Il 20 giugno al via la maturità per 509mila studenti. La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha firmato l’ordinanza che fissa le regole per condurre le ultime prove dell’era Berlinguer-Fioroni. Scegliendo anche le tracce per la prima e le seconde prove, questa è la prassi, sottopostele dal capo della struttura tecnica degli Esami di Stato, Ettore Acerra. “Come ogni anno – dichiara la ministra Fedeli – al Miur abbiamo lavorato per garantire uno svolgimento ordinato dell’esame di Stato e per predisporre delle prove in linea con il percorso formativo delle nostre studentesse e dei nostri studenti, facendo tesoro dell’esperienza degli anni scorsi, delle osservazioni di studenti e docenti, del collegamento con le attività didattiche che si svolgono ogni giorno”.

“Il 20 giugno al via la maturità per 509mila studenti – aggiunge l’inquilina di viale Trastevere – è un traguardo importante, ed è anche un momento di passaggio tra fasi differenti della vita. Vogliamo accompagnare le studentesse e gli studenti in questo percorso”. E da oggi scatta il cronoprogramma che tra un mese e mezzo esatto porterà oltre 509mila studenti del quinto anno alla prova scritta di Italiano. Entro il 15 maggio i Consigli di classe dovranno approvare l’omonimo documento che servirà alle commissioni come guida per svolgere le prove: carriere scolastiche di tutti gli studenti, programmi svolti, tipologie di prove sostenute e esperienze fatte durante i cinque anni.

Un mese dopo, il 18 giugno, si celebrerà la riunione preliminare con i docenti – tre membri interni, tre commissari esterni e il presidente – che esamineranno i ragazzi. E due giorni dopo partirà la kermesse delle prove scritte: il 20 giugno quella di Italiano, nella consueta formula con quattro opzioni (saggio breve/articolo di giornale, analisi del testo, tema storico e tema di attualità), il giorno successivo la prova scritta di indirizzo – versione di Greco al classico, Matematica allo scientifico, Lingua e cultura straniera 1 per il liceo linguistico, scienze umane per il liceo delle scienze umane e lunedì 25 giugno la terza prova scritta, sovente un quizzone con domande a risposta aperta e domande a risposta multipla. Ma quella del 2018 verrà ricordata come l’ultima maturità prima della mezza rivoluzione operata dalla Buona scuola bis.

Con novità su punteggi, prove e requisiti per l’ammissione agli esami. Le novità di quest’anno sono invece pochissime. Una riguarda i modelli di calcolatrice che sarà possibile utilizzare senza incorrere in provvedimenti “rese note – spiegano dal Miur – con una circolare di marzo e chi vorrà usarle dovrà consegnarle il giorno della prima prova scritta per consentire alla commissione d’esame i necessari controlli”. Anche sull’Alternanza scuola-lavoro, che da quest’anno entra a regime, poche novità. Nessun obbligo da parte delle commissioni di indagare sul lavoro svolto. I commissari “nella predisposizione della terza prova, potranno tenere conto, ai fini dell’accertamento delle competenze, delle abilità e delle conoscenze, anche delle esperienze condotte in Alternanza Scuola-Lavoro, stage e tirocinio”.

Stenta a decollare invece la modalità Clil, una materia non linguistica svolta in lingua straniera, introdotta dalla riforma Gelmini. Perché le classi che sono riuscite a svolgere qualche parte del programma in lingua straniera sono poche e anche se gli studenti hanno svolto qualche modulo di Matematica o Storia in inglese non è detto che in commissione ci saranno i docenti delle stesse materie in grado di verificare le competenze degli studenti.

in lingua straniera. Un fallimento dal quale le scuole non sanno come uscire. Ma prima degli esami veri e propri i 509mila studenti iscritti alla maturità dovranno superare lo scoglio dell’ammissione che ogni anno miete 30mila “vittime”.

 

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Autoregolazione, autoefficacia e co-regolazione nell’apprendimento

Autoregolazione, autoefficacia e co-regolazione nell’apprendimento

Bellissimo articolo scritto da Vincenzo Amendolagine

Diverse ricerche hanno messo in evidenza che spesso il successo scolastico dipende dalla capacità di autoregolarsi. In altre parole, per giungere ai traguardi di apprendimento lo studente deve monitorare, controllare e regolare la sua applicazione nello studio. L’autoregolazione ha un suo iter procedurale ben preciso, ovvero lo studente deve darsi un obiettivo da raggiungere, utilizzare le strategie giuste, monitorare i propri progressi, sondare l’efficacia dell’intero processo.  Perché questa abilità possa estrinsecarsi è molto importante l’approccio psicopedagogico degli educatori (Agina, Kommers e Steehouder, 2011). In pratica, è necessario che i docenti promuovano nei loro discenti, fin dalle prime fasi della scolarizzazione, un processo di apprendimento attivo, che li accompagni nel corso di tutta l’intera carriera scolastica.

La validità dell’autoregolazione nell’apprendimento è un predittore del successo nei contesti scolastici (Zimmermann, 2008). Connessa all’autoregolazione è l’autoefficacia (Bandura, 1977) che il soggetto prova quando sa che, grazie alle sue abilità, è in grado di raggiungere un obiettivo che si prefissato.

Le variabili dell’insuccesso scolastico

L’incremento del ruolo di protagonista nel proprio apprendimento è agevolato da una serie di fattori, quali il possedere delle procedure metacognitive, la motivazione ad apprendere e il contesto di apprendimento (Dembo, Junge e Lynch, 2006). Quest’ultimo svolge un ruolo chiave, potendo attivare o ostacolare l’autoregolazione nell’apprendimento.

L’autoregolazione e l’autoefficacia sono due strumenti importanti che prevengono, laddove presenti, l’insuccesso scolastico. Blair e Raver (2015) vedono l’insuccesso scolastico  correlato ad alcuni elementi, quali le caratteristiche personali (inclusi l’autoregolazione e l’autoefficacia), il retroterra familiare e il contesto scolastico. Fra le caratteristiche personali sono da annoverare la capacità di organizzare le informazioni e di finalizzarle all’esecuzione del compito assegnato; l’abilità di focalizzare la propria attenzione; l’attitudine a riflettere sulle esperienze che si fanno; la competenza sociale, che induce ad avere delle interazioni interpersonali positive.

L’apprendimento cooperativo e la co-regolazione

Frequentemente nei contesti scolastici sono promossi i processi di cooperazione fra alunni nell’ambito dell’apprendimento (cooperative learning). In questo caso, si formano dei gruppi di apprendimento in cui l’autoregolazione nello studio da processo individuale diventa collettivo, coinvolgendo l’intero insieme di studenti che partecipano al gruppo (Hayes, Uzuner – Smith e Shea, 2015). In ragione di ciò, l’autoregolazione diviene co-regolazione.

La co-regolazione è efficace, ovvero promuove anche nel singolo la capacità di autoregolazione, nella misura in cui il gruppo è efficiente, ossia si crea un’interdipendenza positiva fra i membri che lo compongono. Nei gruppi di apprendimento si stabiliscono delle dinamiche differenti. Ci sono, infatti, degli individui che adottano un ruolo più attivo e altri un ruolo più periferico. Alcune volte, però, i membri più attivi non sono necessariamente i più qualificati.

Lavoro di gruppo, autoregolazione e autoefficacia

Uno studio (Fernandez-Rio, Cecchini, Mendez-Gimenez, Mendez-Alonso e Prieto, 2017), svolto dai ricercatori del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Oviedo, in Spagna, ha voluto assodare come l’apprendimento cooperativo influisce sull’autoregolazione e sull’autoefficacia di ciascuno studente che fa parte di un gruppo di apprendimento. Lo studio ha reclutato 2513 studenti di scuola secondaria di secondo grado, con un’età compresa fra 12 e 17 anni, iscritti a 17 differenti scuole che appartengono al Network Nazionale delle Scuole Spagnole che utilizzano quotidianamente l’apprendimento cooperativo. Tutti i partecipanti alla ricerca avevano fatto l’esperienza dell’apprendimento cooperativo per almeno un anno scolastico. Per valutare gli effetti dell’apprendimento cooperativo sugli studenti sono stati somministrati alcuni questionari, quali The Cooperative Learning Questionnarie (Fernandez-Rio, Cecchini, Mendez-Gimenez, Mendez-Alonso e Prieto, 2017), che indaga l’efficacia dell’apprendimento cooperativo; The Strategies to Control the Study Questionnaire (Hernandez e Garcia, 1995), che valuta l’autoregolazione nell’apprendimento; The Global Academic Self – Efficacy Questionnarie (Torres, 2006), che indaga l’autoefficacia percepita.

Dai risultati della ricerca si evince che l’apprendimento cooperativo influenza positivamente l’autoregolazione e l’autoefficacia nell’apprendimento nel 35% circa dei soggetti esaminati (888 ragazzi).

 

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Soft skills

Soft skills, cosa sono e come inserirle nella tua programmazione didattica……

Precisione, resistenza allo stress, problem solving. Sono solo alcune delle famose soft skills tanto ricercate oggi in ambito lavorativo. Si tratta di competenze trasversali che è necessario avere per affrontare con successo il mondo del lavoro e che, proprio per questo motivo, fanno tanto parlare gli insegnanti impegnati a preparare gli studenti al loro primo e vero sguardo sul lavoro.

Le soft skills di efficacia personale sviluppano doti come la creatività e l’equilibrio, fattori fondamentali in ambito lavorativo e necessarie per la risoluzione di problemi anche in caso di mansioni statiche.

Le competenze in ambito relazionale accrescono la capacità di lavorare in gruppo e di cooperare per il raggiungimento degli obiettivi. Tra queste, l’etica e la tolleranza permettono di gestire lo stress causato da relazioni disfunzionali e di adottare comportamenti adeguati a norme e valori condivisi.
Un altro aspetto determinante è la capacità di prendere decisioni e di negoziare, che migliora grazie allo sviluppo di flessibilità, ascolto empatico e distacco razionale.

Le competenze orientate alla realizzazione di sé, invece, riguardano soprattutto la capacità di valutazione, da cui deriva la selezione, la corretta gestione e la valorizzazione delle informazioni. Secondo AlmaLaurea le soft skills sono 14, nello specifico:

1. Autonomia

Capacità di svolgere i compiti assegnati senza il bisogno di una costante supervisione facendo ricorso alle proprie risorse.

2. Fiducia in sé stessi

È la consapevolezza del proprio valore, delle proprie capacità e delle proprie idee al di là delle opinioni degli altri.

3. Flessibilità/Adattabilità

Sapersi adattare a contesti lavorativi mutevoli, essere aperti alle novità e disponibili a collaborare con persone con punti di vista anche diversi dal proprio.

4. Resistenza allo stress

Capacità di reagire positivamente alla pressione lavorativa mantenendo il controllo, rimanendo focalizzati sulle priorità e di non trasferire su altri le proprie eventuali tensioni.

5. Capacità di pianificare ed organizzare

Capacità di realizzare idee, identificando obiettivi e priorità e, tenendo conto del tempo a disposizione, pianificarne il processo, organizzandone le risorse.

6. Precisione/Attenzione ai dettagli

È l’attitudine ad essere accurati, diligenti ed attenti a ciò che si fa, curandone i particolari ed i dettagli verso il risultato finale.

7.

È la capacità di riconoscere le proprie lacune ed aree di miglioramento, attivandosi per acquisire e migliorare sempre più le proprie conoscenze e competenze.

8. Conseguire obiettivi

È l’impegno, la capacità, la determinazione che si mette nel conseguire gli obiettivi assegnati e, se possibile, superarli.

9. Gestire le informazioni

Abilità nell’acquisire, organizzare e riformulare efficacemente dati e conoscenze provenienti da fonti diverse, verso un obiettivo definito.

10. Essere intraprendente/Spirito d’iniziativa

Capacità di sviluppare idee e saperle organizzare in progetti per i quali si persegue la realizzazione, correndo anche rischi per riuscirci.

11. Capacità comunicativa

Capacità di trasmettere e condividere in modo chiaro e sintetico idee ed informazioni con tutti i propri interlocutori, di ascoltarli e di confrontarsi con loro efficacemente.

12. Problem Solving

È un approccio al lavoro che, identificandone le priorità e le criticità, permette di individuare le possibili migliori soluzioni ai problemi.

13. Team work

Disponibilità a lavorare e collaborare con gli altri, avendo il desiderio di costruire relazioni positive tese al raggiungimento del compito assegnato.

14. Leadership

L’innata capacità di condurre, motivare e trascinare gli altri verso mete e obiettivi ambiziosi, creando consenso e fiducia.

Diciamolo però francamente: la nostra scuola, con programmi didattici molto ricchi, verifiche continue e interrogazioni frequenti, presenta una una struttura piuttosto rigida e non sviluppa particolarmente le competenze trasversali nei ragazzi, che invece sono fondamentali per affrontare con successo il mondo del lavoro e non solo.

Ecco che in questo senso viene in aiuto TuttoAlternanza.it, il portale nato dalla partnership tra Tuttoscuola e Civicamente e che ha l’obiettivo di accompagnare gli studenti verso il successo formativo, attraverso approfondimenti su tematiche di grande attualità. Cosa sono le soft skills? Come promuoverle nei contesti scolastici e di vita quotidiana? Perché sono tanto importanti nella realtà lavorativa contemporanea? TuttoAlternanza.it permette di rispondere a queste domande grazie a docenti e ricercatori dell’università telematica IUL (Italian University Line) promossa da Indire e Università degli studi di Firenze.

Come inserire le soft skills nella programmazione didattica?

Sappiamo bene che a scuola il tempo non è mai abbastanza, ma la soluzione è semplice: promuovere le soft skills all’interno del monte orario dell’Alternanza Scuola Lavoro. Per farlo con facilità, TuttoAlternanza.it propone fra le sue soluzioni PRONTI AL LAVORO!, ambienti digitali di apprendimento grazie ai quali gli studenti non rischieranno più di arrivare presso la struttura ospitante impreparati, ma formati a un corretto inserimento sul lavoro.

Uno dei percorsi di PRONTI AL LAVORO! riguarda proprio le soft skills. Il corso delinea una panoramica di queste competenze, fornendo alcuni strumenti per identificarle e migliorarle. Le lezioni sono curate da IUL che verifica e valuta il lavoro dei ragazzi. Di seguito l’offerta formativa proposta:

Unità didattica 1: Skills di efficacia personale
Video lezione
– Materiali di supporto

Unità didattica 2: Skills relazionali e di servizio
– Video lezione
– Materiali di supporto

Unità didattica 3: Skills relative a impatto e influenza
– Video lezione
– Materiali di supporto

Unità didattica 4: Skills orientate alla realizzazione
– Video lezione
– Materiali di supporto

Unità didattica 5: Skills cognitive
– Video lezione
– Materiali di supporto

Attività e test finale.

Quali sono i carichi di lavoro per il docente?

Leggerissimi: può avvalersi pienamente della piattaforma nella quale sono già infierite le lezioni e le attività proposte agli studenti. Con un lavoro minimo del docente, agli alunni verrà assicurato un percorso di qualità e certificato dall’Università

Quali soft skills vengono approfondite nel percorso di PRONTI AL LAVORO! ?

Come abbiamo visto precedentemente, in ambito internazionale sono moltissime le soft skills individuate da docenti ed esperti in materia. La lista, in continua evoluzione, presenta competenze trasversali ritenute indispensabili per entrare nel mondo del lavoro. La proposta di TuttoAlternanza.it presenta e approfondisce le seguenti soft skills:

  • Skills di efficacia personale – relative alla capacità degli alunni di autoefficacia ed auto efficienza.
  • Skills relazionali e di servizio– relative alla capacità degli alunni di entrare in empatia reciproca e sviluppare relazioni significative
  • Skills relative a impatto e influenza- che rimandano alla dimensione organizzativa e lo sviluppo di leadership
  • Skills orientate alla realizzazione– relative alla capacità degli alunni di iniziare e portare a termine un lavoro, anche complesso
  • Skills cognitive– relative allo sviluppo di capacità cognitive complesse da parte degli alunni

Ognuna delle competenze è presentata attraverso delle video lezioni, dei materiali di apprendimento e il modulo presente delle attività conclusive per promuovere maggiormente il protagonismo degli alunni.

 

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Stare bene a scuola si può: vademecum per un buon clima in classe

Stare bene a scuola si può: vademecum per un buon clima in classe

 

Stare bene a scuola si può.Il clima della classe è il frutto di un infinito intreccio di condizioni che possono essere create a partire dalla consapevolezza del docente della propria funzione di guida. In questo articolo si presentano una serie di indicazioni distinte nei diversi momenti di rapporto con la classe, che ogni docente può facilmente applicare durante la sua attività. Nella seconda parte, l’Autrice si sofferma a presentare una serie di attività educative che possono essere messe in atto per favorire un clima di classe positivo.

 

Introduzione

Il compito dell’insegnante è quello di essere formatore nell’accezione più ampia del termine. Il suo modo di essere e di stare nella classe può influire notevolmente sui sentimenti del singolo alunno e sulle dinamiche interpersonali nel gruppo.

Se il docente accede ad una capacità riflessiva (Bruner, 1988; Schön, 1993; Mezirow, 2003;) rispetto a sé e alla relazione/comunicazione in classe, può offrire uno specchio con cui i ragazzi si potranno sintonizzare (Franca, 2014; Rizzolatti e Senigallia, 2006).

Qui di seguito sono proposte delle semplici procedure che il docente può attivare per essere maggiormente consapevole del proprio compito di formatore a tutto tondo.

Prima di entrare in classe

Prima di entrare in classe il docente può soffermarsi, auto osservarsi e ricentrarsi rispetto a:

– Respirazione: cercare di rallentarla e di portarla a livello addominale. Ricordarsi di respirare sempre col naso in modo che ci sia meno iperventilazione e quindi sia facilitata la concentrazione e la calma (Middendorf, 2005).

– Propriocezione: fare un breve check sul proprio orientamento corporeo (Kabat-Zinn, 1990), per riconnettersi al proprio sé corporeo.

– Identità: sentire il proprio nome cercando di essere concentrati sul momento presente (Tolle, 2004; 2008), e sul gruppo classe nel quale si sta per entrare. Capita spesso che ci portiamo dentro l’aula i sentimenti e le emozioni vissute nelle ore precedenti in altre classi; è importante cercare di lasciare fuori dalla porta tutto ciò che non riguarda la storia della classe in cui stiamo entrando in modo da essere più ricettivi a ciò che si muove nel gruppo.

In classe

Esplicitare gli obiettivi

E’ buona norma far presente ad ogni lezione cosa si andrà a fare (attività, contenuti, metodologie, tempi). Su proposta dei ragazzi si potranno anche inserire variazioni nella scansione degli obiettivi in modo da  stabilire un’alleanza educativa (Franca, op. cit.) grazie alla quale ognuno si sentirà partecipe e ascoltato rispetto alle proprie esigenze. La definizione degli obiettivi insieme alla classe è una procedura che sarebbe importante svolgere sempre: all’inizio dell’anno per la scelta condivisa dei progetti, delle attività extra curricolari, della scansione degli argomenti di lezione, ma anche durante tutto l’anno ogni volta che ce ne sia la necessità o se ne presenti l’occasione (Jasmine, 2002). Se la classe si abitua a questa modalità il clima cambia radicalmente. Ovviamente per questo il docente dovrà spendere un po’ del suo tempo, ma i risultati saranno sorprendenti. All’insegnante, nel rispetto della sua funzione educativa, rimarrà sempre il compito e la responsabilità di guida e regia della situazione.

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Bellissimo articolo pubblicato da Educare.it e scritto Giulia Lucchesi

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Italia i docenti meno pagati

Italia i docenti meno pagati

Scuola, in Italia i docenti meno pagati. “Per un maestro italiano servono 455 euro in più

Dossier della Flc Cgil: “Per raggiungere i livelli europei necessario un aumento di 363 euro per un professore delle medie e 439 euro per le superiori”. Piano in 14 punti per colmare le distanze. La Camusso: “Apriamo il dibattito in tutto il Paese”

di CORRADO ZUNINO

Per guadagnare quanto un collega d’Europa un insegnante di infanzia e delle elementari dovrebbe avere – domani – un aumento in busta paga di 455 euro il mese. Un professore delle medie dovrebbe veder crescere lo stipendio di 363 euro, il collega delle superiori di 439 euro. Servirebbero, solo per questo, 6,8 miliardi. La Cgil, ramo Federazione dei lavoratori della Conoscenza, a convegno all’Auditorium di via Rieti ha illustrato la sua idea di scuola, “La scuola che verrà” appunto: perno del Paese e sua proiezione sul futuro. Lo ha fatto partendo dallo status quo. Della docenza, in particolare.

Seguendo il Conto annuale 2016 redatto dalla Pubblica amministrazione, si vede come la scuola è passata da un milione e 128 mila occupati nel 2008 (docenti, dirigenti scolastici, personale amministrativo) a un milione e 13 mila nel 2012 (115 mila persone espulse) per risalire a un milione e 116 mila nella stagione 2016 recuperando nelle ultime quattro stagioni quasi tutte le uscite delle precedenti quattro (il saldo negativo è di 12 mila unità). A otto anni di distanza la “Buona scuola” ha quasi fermato l’emorragia aperta dai tagli della Legge Gelmini: le forti assunzioni di docenti, però, non sono state seguite da un piano di stabilizzazione degli amministrativi. Le segreterie, oggi, sono l’area di crisi degli istituti scolastici italiani. A otto anni di distanza il taglio sui numeri del personale è del 10,6 per cento. Su un piano finanziario si è passati da un costo di 46,5 miliardi l’anno nel 2008 a 41,6 nel 2016: cinque miliardi di euro in meno per la scuola che rappresentano un saldo negativo del 10,7 per cento. In linea con la diminuzione degli occupati.

Il dato più importante, che discende dai primi due, lo abbiamo visto: il calo degli stipendi dei docenti italiani. E l’impietoso paragone con il resto dell’Europa avanzata. Solo nel 2009, penultimo contratto appena firmato, la retribuzione media del comparto era pari a 30.570 euro lordi. Nei sette anni successivi è scesa (con due piccoli recuperi nel 2011 e nel 2015) fino a toccare il pavimento nel 2016, ultimo anno rilevato: 28.403 euro lordi. Una perdita di 2.167 euro, il 7,1 per cento. Quest’anno, febbraio 2018, è arrivato il rinnovo del contratto della scuola e ha consentito una leggera crescita delle buste paga: 96 euro l’aumento medio per un docente, 84,5 euro per un amministrativo. Sono però le comparazioni successive, queste tratte da “Education at glance” dell’Ocse, a lasciare addosso alla scuola italiana l’idea del disinteresse collettivo. Nei tre blocchi di carriera di un professore di scuola secondaria di primo grado (stipendio iniziale, dopo 15 anni di attività, al massimo dell’anzianità) l’Italia è sotto la media Ocse (i Paesi industrializzati) e sotto la media Ue a 22: nel salario d’ingresso siamo diciannovesimi dietro l’Irlanda (prima nazione è, nettamente, il Lussemburgo, quindi Svizzera e Germania, quinta la Spagna). Nella progressione della carriera ci superano altri dieci Paesi (Giappone e Corea, ma anche Costa Rica e Colombia). La situazione statistica andrà aggiornata comprendendo nell’analisi sia il rinnovo del contratto 2018 che i tentativi di premio al merito inseriti dalla Legge 107 da luglio 2015. In generale, in molti Paesi le carriere sono decisamente più dinamiche, gli incrementi più consistenti.

Il successivo rapporto Ocse, illustrato dalla Flc Cgil, dice ancora che tra il 2010 e il 2015 in Italia – lo abbiamo visto – gli stipendi di un docente (scuola secondaria di primo grado con 15 anni di servizio) sono diminuiti e dice poi che in Francia, Giappone e Belgio hanno conosciuto una perdita meno consistente, mentre in Gran Bretagna, Scozia, Austria, nella Finlandia presa sempre ad esempio scolastico, ovviamente in Grecia sono decresciuti maggiormente. Ci sono nazioni che hanno continuato a investire, anche durante la crisi economica, sulla loro classe docente: in Ungheria (straordinariamente), quindi in Israele, Turchia, Portogallo, Germania, in Corea, Danimarca, Norvegia e Spagna.

In Italia un docente di scuola primaria con 15 anni di servizio guadagna un terzo esatto in meno di un laureato in altro settore. Un professore delle medie inferiori guadagna il 72 per cento, uno delle superiori il 76 per cento. In Germania il rapporto è uno a uno, in Spagna il livello medio delle retribuzioni scolastiche è lievemente superiore alla media degli altri laureati. Per arrivare agli stipendi Ue (a 22 Paesi) un docente d’infanzia ed elementari di una scuola italiana dovrebbe conoscere un aumento di 455 euro (il 20,5 per cento in più), un professore di medie dovrebbe veder crescere la busta paga di 363 euro (più 14,9 per cento) e uno delle superiori di 439 euro (più 17,6 per cento). Servirebbero, solo per questo, 6,8 miliardi (la Buona scuola, tra il 2015 e il 2017, ne ha investiti quattro).

D’altro canto – è questa è l’aliquota più preoccupante e segnale di miopia politica – la percentuale di spesa per la scuola rispetto all’intera amministrazione pubblica in otto anni (2005-2013) è scesa dall’8,1 per cento al 7,3: quattro punti percentuali sotto la media Ocse, due punti e mezzo sotto la media Ue. La spesa per studente in Italia (dalla scuola primaria alla secondaria) è pari a 8.926 dollari quando la media europea è di 795 dollari superiore.

La Cgil propone uno schema di finanziamento progressivo per i prossimi sei anni (2019-2024) costruito su quattordici punti: prevede, solo per queste voci, un impiego che parte da 3,5 miliardi per arrivare a 20,6 miliardi nel 2024. Tra le voci, va ricordato, ci sono: l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni, la generalizzazione della scuola dell’infanzia, il ripristino del tempo pieno (e dei moduli) nella scuola primaria, il ritorno del tempo prolungato nella secondaria di primo grado, laboratori nelle superiori e “revisione radicale” dell’attuale modello di Alternanza scuola lavoro, quindi riduzione degli alunni per classe e un investimento massiccio sull’istruzione per gli adulti.

Susanna Camusso, segretaria nazionale Cgil, dice: “Discutere della scuola che verrà significa discutere del futuro che immaginiamo. La nostra sfida è alta. Apriamo nel Paese un dibattito sull’istruzione”. Il segretario della Federazione lavoratori della conoscenza, Francesco Sinopoli, aggiunge: “Lo studio, la scuola e l’università sono parte di un riscatto sociale, strumenti indispensabili per la comprensione del mondo. Ma la scuola da sola non può colmare il più grande divario territoriale d’Europa e non può assolvere alla sua missione senza un grande progetto nazionale mirato a superare i differenziali degli stessi sistemi territoriali.
Si deve rivedere l’autonomia e investire davvero. Sulla scuola apriamo un’assemblea costituente”.

 

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Diploma in quattro anni

Diploma in quattro anni

La stampa propone un articoli sul diploma in 4 anni di Elisabetta Pagani

“Noi, diplomati in quattro anni con il cuore in Europa”

Le esperienze dei primi maturandi italiani del liceo breve alla vigilia della sperimentazione per duecento istituti.

«Sapevo che avrei rinunciato a parte del mio tempo libero ma a volte è dura vedere che i miei amici escono mentre io sono a casa a studiare. A scuola sto incontrando delle difficoltà, è una continua scalata. Però sono sicura che quando arriverò in cima sarò fierissima di me». A scrivere è una ragazza che oggi ha 16 anni e frequenta la terza scientifico del liceo Gallio di Como, dove si prepara per la maturità del 2019 con un anno di anticipo sui suoi coetanei.  L’istituto paritario fa parte del gruppo di 12 «pionieri», privati e pubblici, che ha avviato la sperimentazione del diploma in 4 anni prima del bando del ministero dell’Istruzione, che a settembre consentirà a 192 licei e tecnici di formare classi per il quadriennale. Il gruppo dei 12 ha però perso un pezzo prima di partire, il liceo statale Garibaldi di Napoli: «Non si è mai iscritto nessuno – spiega la vicepreside Rosaria Blasi – forse non era il contesto giusto per questa novità».

Pubblico e privato

Una novità che non ha convinto tanti, tra cui i sindacati. Ma come sta andando per i primi diplomati a 18 anni? «Noi siamo stati i pionieri insieme al San Carlo di Milano – spiega Donatella Preti, dirigente scolastica del liceo Guido Carli di Brescia, nato 5 anni fa per volontà dell’Associazione industriale locale – e a luglio 2017 abbiamo avuto i nostri primi diplomati. Difficile tirare le somme su una sola esperienza, ma i risultati sono stati positivi. Votazione media di 83/100, in linea con quella dei nostri pochi maturandi quinquennali e ben oltre quella nazionale». Tre le scelte principali di chi si è diplomato alla Guido Carli, paritaria con retta di 8000 euro che quest’anno porta alla maturità 34 diciottenni: «La Bocconi, il Politecnico di Milano o l’estero».

Il percorso di studi abbreviato – confermano docenti, genitori e studenti – è «duro, serve molto impegno e il tempo libero diminuisce». I ragazzi – specifica il ministero – devono dimostrare le stesse competenze dei colleghi del quinquennale. Per recuperare tempo, allora, si allungano l’anno scolastico e l’orario giornaliero. «Si inizia ai primi di settembre – continua Preti – e si chiude il 30 giugno: 38 settimane invece di 33». Come al liceo Gallio, dove la prima maturità breve – per 22 ragazzi entrati con un test – sarà nel 2019: «38 settimane – spiega il preside, padre Luigi Croserio – e 30 ore a settimana, mentre al biennio dello scientifico normale sono 27. Servono una buona preparazione dal primo ciclo di studi, propensione all’impegno e conoscenza dell’inglese, ma il nostro desiderio non è quello di fare una cosa per pochi».

Materie in inglese

In queste scuole sono molte le materie insegnate in inglese. «Più del 40% – spiega Barbara Fumagalli, rappresentante dei genitori di terza del liceo comasco – ed è giusto che sia così se vogliono confrontarsi con l’estero. Il programma è impegnativo ma il metodo di studio completamente diverso da quello tradizionale, che sta facendo l’altra mia figlia in quinta. Meno lezioni frontali, approfondimenti da fare a casa, interdisciplinarietà. Una preparazione che stimola il senso critico». Punti deboli? «Mette più ansia ai ragazzi».

A chiedere l’introduzione del quadriennale sono stati in molti casi i genitori, rappresentanti di un tessuto economico locale imprenditoriale o di professionisti con lo sguardo rivolto all’estero. «Il giudizio per noi è positivo – spiega Salvatore Giuliano, preside del liceo Majorana di Brindisi che Luigi Di Maio ha inserito nella lista dei suoi eventuali ministri (Istruzione) – ed è monitorato da un comitato tecnico-scientifico. I ragazzi nell’arco dei 4 anni fanno lo stesso monte ore del quinquennale, ma il segreto è il metodo di studio. Quello tradizionale non funziona, bisogna innovare. Noi da sempre usiamo la tecnologia, il cooperative learning, l’apprendimento intervallato. Con ottimi risultati – sottolinea -. E non è vero che è un percorso che esclude, anzi. Da noi ci sono diversi ragazzi con deficit specifici dell’apprendimento. Spero – conclude – che le quasi 200 scuole che si accingono a iniziare il quadriennale non lo facciano con il metodo tradizionale».

Dalle prime informazioni sulle iscrizioni non sembra però che la novità abbia riscosso grande successo. «È un percorso che deve ancora affermarsi – confermano i presidi – e forse spaventa la mole di impegno». «È il prezzo da pagare per risparmiare un anno – dice Lorenzo De Simone, maturando del Majorana – io sono in quarta e stiamo facendo il Fascismo come le quinte». Soddisfatto della scelta? «Devi abituarti a un ritmo e a livelli di stress più alti, serve una bella forza interiore. Ma sono riuscito a mantenere i miei interessi, la palestra e le recensioni di musica per una fanzine. Da grande vorrei fare l’insegnante o il ricercatore, magari all’estero. E sono contento di poterlo fare un anno prima, come tanti in Europa».

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Il film per far amare la matematica e la fisica

Articolo proposto dalla Rapubblica di  ILARIA VENTURI

Il trailer: “La direzione del tempo”, il film per far amare la matematica e la fisica a scuola

 

I ragazzi interpretano Newton e Einstein nel lungometraggio prodotto con Rai Cinema e presentato nella manifestazione che ci celebra oggi con gare a colpi di quiz tra scuole

La preside richiama il giovane professore: “I risultati sono disastrosi, cerchi di far scattare qualche scintilla”. E così l’insegnante si inventa un cortometraggio per far studiare (e amare) la matematica e la fisica in una classe di scuola superiore. Motore partito: “Einstein, prima. Ciak”. Si gira. E’ nato così il film “La direzione del tempo”, coprodotto con la Rai e presentato oggi al PiGreco Day, la manifestazione che in tutto il mondo celebra la costante matematica. Il lungometraggio, ambientato in un liceo scientifico, è basato sulle difficoltà di alcuni studenti che si trovano ad affrontare con forte disagio l’approccio alle materie scientifiche.

·LA TRAMA: GLI STUDENTI NEI PANNI DI EINSTEIN
La trama è coinvolgente: quando ormai ogni speranza di recuperarli sembra persa, il loro insegnante di fisica ha l’idea di allestire uno spettacolo teatrale. I ragazzi indossano i panni dei più grandi scienziati dell’antichità e imparano ad amare la materia e a trasporla nella propria vita reale così prendono vita Einstein, Newton, Bernouilli, Faraday, Clausius e le loro scoperte. “Se oggi abbiamo un aereo che vola nel cielo o andiamo sulla luna, se riusciamo a comunicare con i cellulari è soltanto grazie a questi giganti”, ricorda nel film il professore. “Per realizzare i vosti sogni ed essere liberi dovete percorrere strade difficili. Inventate una vostra equazione, fate una sintesi di quello che volete dalla vita”.

GLI ALUNNI PEGGIORANO IN MATEMATICA ALLE MEDIE
Secondo gli ultimi dati Timss (Trends in international Mathematics and Science study) 2015, l’indagine che analizza il rendimento degli studenti in matematica e scienze in oltre 60 Paesi, gli studenti italiani rimangono sopra la media alle elementari e di poco sotto alle medie. Al quarto anno della primaria gli alunni ottengono un punteggio di 507 in matematica e 516 in scienze (la media Timss è 500). Il Nord Est in matematica raggiunge un punteggio medio di 525, mentre il Sud-Isole arriva a 477, sotto la media. L’Italia è al trentesimo posto in matematica, davanti alla Francia (35esima) e dietro alla Germania (24esima). In terza media, invece, i nostri studenti ottengono un punteggio di 494 in matematica e di 499 in scienze.

· SPETTACOLI DI MATEMATICA
A lanciare l’iniziativa del lungometraggio che sarà distribuito nelle scuole (altri ne sono stati prodotti per elementari e medie) è “Spettacoli di matematica”, un’associazione di promozione sociale che da qualche anno divulga la matematica nelle scuole attraverso laboratori e spettacoli teatrali. “Di fronte ai dati Ocse-Pisa che da sempre raccontano una certa disaffezione dei nostri ragazzi per tabelline ed equazioni abbiamo voluto parlare di numeri attraverso il cinema. E ad ogni proiezione associamo attività ludico-scientifiche”, spiega Aldo Reggiani, ingegnere e presidente dell’associazione.

·GARA A COLPI DI QUIZ PER IL PI-GRECO DAY
Il 14 marzo è ormai una data simbolo per rendere omaggio al Pi Greco, il re dei numeri che indica il rapporto tra la circonferenza e il diametro del cerchio. Anche quest’anno centinaia di team delle scuole di tutta Italia, dalla primaria alle superiori, sono pronti a sfidarsi con formule e numeri. Giochi e gare a base di calcoli si svolgeranno oggi anche presso il ministero dell’Istruzione con la ministra Valeria Fedeli. Dodici le squadre in competizione che saranno presenti a Roma. Contemporaneamente partirà la sfida on line. I team dovranno battersi a colpi di quiz: vince chi riesce a risolvere il maggior numero di quesiti nell’arco della giornata.

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Un diplomato su due ammette: “Ho sbagliato scuola”

Un diplomato su due ammette: “Ho sbagliato scuola”

 

Non calano i pentiti della scelta fatta a 14 anni dell’istituto o dell’indirizzo di studi. Indagine AlmaDiploma su 80mila ragazzi usciti dalle superiori nel 2016 e 2014

di ILARIA VENTURI

 

Sarà per una scelta prematura, da fare a 13-14 anni, o per l’orientamento che ancora non funziona come dovrebbe. Ma si conferma la fatica dei ragazzi nell’individuare la scuola superiore o l’indirizzo “giusto” per loro. Interpellati poco prima della Maturità quasi uno su due (45%) dichiara di aver sbagliato. Dopo un anno, gli stessi ragazzi si dicono pentiti della scelta nel 42% dei casi. E’ il nuovo Rapporto 2018 redatto da AlmaDiploma sulla condizione occupazionale e formativa dei diplomati a dirlo. L’indagine ha riguardato circa 80 mila diplomati del 2016 e del 2014 intervistati rispettivamente a uno e tre anni dal conseguimento del titolo. Ne esce la fotografia dei diplomati rispetto all’esperienza scolastica compiuta e al futuro che li aspetta tra università – scelta dal 70% – e lavoro.

“La transizione post diploma pone il ragazzo di fronte a problematiche complesse: la conoscenza di sé, il possesso delle informazioni indispensabili sull’università e sul mondo del lavoro – spiega Mauro Borsarini, presidente di AlmaDiploma – Proprio per questo diventa fondamentale mettere in atto delle politiche di orientamento che supportino i giovani sia nella scelta dell’università che nel loro ingresso nel mercato del lavoro”. L’indagine, continua, “permette alle scuole di acquisire elementi per poter valutare l’efficacia esterna del proprio curriculum di studi, delle proprie metodologie di insegnamento e della propria progettazione educativa e didattica”.

· LA SCUOLA? “SE POTESSI TORNARE INDIETRO CAMBIEREI”
“La famiglia e gli insegnanti della scuola secondaria di primo grado esercitano un ruolo di fondamentale importanza nella scelta del percorso da compiere”, si legge nel Rapporto. È probabilmente per tali ragioni, dunque, che alla vigilia della conclusione degli studi il 55% dei diplomati del 2016 dichiara che, potendo tornare indietro, sceglierebbe lo stesso corso nella stessa scuola, mentre il restante 45% compierebbe una scelta diversa: oltre un quarto cambierebbe sia scuola sia indirizzo, il 12% ripeterebbe il corso ma in un’altra scuola, l’8% sceglierebbe un diverso indirizzo nella stessa scuola. Intervistati a un anno dall’esame di Satto chi replicherebbe esattamente il percorso scolastico sale al 57%. Ma rimane il 27% che cambierebbe sia scuola che indirizzo. I meno convinti risultano quelli degli istituti professionali e il malcontento cresce a un anno dal diploma.

Un diplomato su due ammette: "Ho sbagliato scuola"

A sinistra i ragazzi intervistati prima del diploma, a destra ad un anno dal diploma (fonte AlmaDiploma)

· DOPO IL DIPLOMA IL 67% SI ISCRIVE ALL’UNIVERSITA’
I diplomati del 2016 iscritti all’università, dopo un anno, sono il 67%. La quota di diplomati dediti esclusivamente allo studio universitario è nettamente più elevata tra liceali (68%) rispetto ai diplomati del tecnico (37%) e del professionale (18%). Rimane assai elevata, ancora dopo tre anni dal diploma – racconta il rapporto – la quota di liceali che studia – esclusivamente – all’università: 62%, contro il 32% del tecnico e il 13% del professionale.? Erano già convinti tra i banchi della scuola secondaria di secondo grado di volerla fare? Sì. Alla vigilia dell’esame di Stato, infatti, l’86% di coloro che aveva dichiarato di volersi iscrivere all’università ha successivamente confermato le proprie intenzioni. All’opposto, l’8% ha cambiato idea.? Il contesto socio-economico e culturale familiare influenza nettamente la scelta. Fra i diplomati del 2016 appartenenti a contesti più favoriti è nettamente più frequente l’iscrizione all’università (79% contro 53% dei giovani provenienti da famiglie meno favorite). Anche il titolo di studio dei genitori ha un peso nelle scelte formative dei giovani: l’84% dei diplomati provenienti da famiglie in cui almeno un genitore è laureato ha deciso di iscriversi all’università. “La scelta delle famiglie di supportare la prosecuzione degli studi – dice il rapporto – è influenzata dalle difficoltà economiche e occupazionali vissute e, in molti casi, chi può fa proseguire gli studi rinviando l’ingresso nel mercato del lavoro”.

· I DIPLOMATI AL LAVORO: PRECARI E STIPENDI DA MILLE EURO
Ad un anno dal conseguimento del titolo, escludendo quanti sono impegnati in attività formative retribuite, risultano occupati 35 diplomati su cento: tra questi 16 hanno scelto di frequentare l’università lavorando. Come era naturale attendersi, questa percentuale raggiunge il suo massimo in corrispondenza dei diplomati professionali (47%) e dei tecnici (42%) mentre tocca il minimo tra i liceali (27%). A tre anni dal titolo sono occupati 46 diplomati (di cui il 18% è impegnato sia nello studio che nel lavoro). Tra i diplomati del 2014, tale quota raggiunge il suo massimo in corrispondenza dei diplomati professionali (69%) e tecnici (56%), mentre tocca il minimo tra i liceali (32%). La disoccupazione coinvolge 20 diplomati su cento ad un anno; una quota significativa che raggiunge il 23% dei diplomati professionali, i più pronti ad inserirsi nel mercato del lavoro. ?Il tasso di disoccupazione, a tre anni dal titolo, scende al 13%. I diplomati che lavorano a tempo pieno hanno per lo più contratti a termine e guadagnano in media, a un anno dal diploma, 1.043 euro mensili netti e a tre anni 1.169 euro.

· ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO COINVOLGE IL 61%
Il rapporto dedica uno specifico approfondimento all’alternanza scuola-lavoro. Dall’Indagine emerge che il 61% dei diplomati dichiara che il percorso didattico concluso prevedeva tali tipi di esperienze che – come ci si poteva attendere – risultano particolarmente diffuse negli istituti professionali (il 91% dei diplomati dichiara che il progetto era previsto) e nei tecnici (86%); riguardano solo in minima parte i licei (40%). L’alternanza scuola-lavoro “non sembra essere un’esperienza isolata, che termina con il diploma – spiega l’indagine – ma spesso si traduce in un rapporto di lavoro con l’azienda presso cui lo studente ha svolto i periodi lavorativi previsti dal progetto”.

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L’università perde professori e ricercatori

L’università perde professori e ricercatori: in sette anni quasi cinquemila in meno.

L’università perde professori e ricercatori, sempre meno toghe. E sempre più precarie: assegnisti di ricerca e docenti a contratto. , s L’università italiana ha perso per strada in sette anni 4.650  professori e ricercatori (il 7,9%): erano 58.885 nel 2010-11, sono 54.235 nel 2016-17. In particolare, diminuiscono di quasi un quinto gli ordinari (da 15.169 a 12.156) e i ricercatori (da 24.530 a 19.737), mentre per effetto del piano straordinario, con le tornate di abilitazioni degli ultimi anni, gli associati segnano un più 16,7%. Insomma il blocco del turnover, che negli anni passati ha frenato il reclutamento negli atenei, si è fatto sentire e i numeri lo dimostrano. In compenso salgono i titolari di assegni di ricerca, studiosi precari con contratti rinnovabili sino a 4 anni: sono cresciuti da 13.109 nel 2010-11 a 13.946 nel 2016-17 (+6,4%). In generale, tenendo conto anche di questo balzo in avanti degli assegnisti, i ricercatori arrivano così a superare i professori ordinari e associati: i primi salgono al 28,1%, gli altri si fermano al 26,2%. È la fotografia scattata dal ministero nel Focus sul personale docente e non docente nel sistema universitario italiano appena pubblicato e che riguarda l’anno accademico 2016-2017.

· POCHE DONNE IN TOGA E QUASI 26MILA DOCENTI A CONTRATTO
Rispetto al 2010-11 la consistenza del personale universitario, pari a 125.600 dipendenti tra docenti e amministrativi, è diminuita del 6,5%. La riduzione coinvolge i professori (-7,9%), i collaboratori linguistici (-7,8%) e il personale tecnico amministratvio (-7,5% a tempo indeterminato; -13,8% a tempo determinato). A questi vanno aggiunti 25.770 docenti, non di ruolo, titolari di contratti di insegnamento nei corsi universitari.

Le differenze di genere si fanno sentire. Se le donne costituiscono più della metà del personale tecnico-amministrativo (58,5%), tra i docenti e ricercatori la loro presenza scende al 40%. Ed è soprattutto ai vertici della carriera accademica che le donne sono poco rappresentate. Nulla di nuovo sotto il sole: le dirigenti sono il 40%. Per le docenti il rapporto parla di “segregazione verticale”: la loro presenza diminuisce al progredire della carriera. Infatti, la percentuale di donne supera seppur di poco la metà tra i titolari di assegni di ricerca (50,7%), raggiunge quasi il 47% tra i ricercatori e, via via, si riduce al 37,2% tra i professori associati ed al 22,3% tra gli ordinari. Tale situazione, precisa il Miur, è abbastanza comune e diffusa anche in altri paesi europei: la percentuale di donne afferenti al Grade A, corrispondente alla posizione di full professor (professori ordinari per l’Italia), in Europa è pari a circa il 21%.

L'università perde professori e ricercatori: in sette anni quasi cinquemila in meno

Fonte Miur

· LA PIRAMIDE ACCADEMICA. ETA’ MEDIA? 52 ANNI
Il mondo accademico, formato da 64.321 unità nelle università statali, si conferma a forma di piramide. I professori ordinari, che sono il 18,9%, rappresentano il vertice. Chi svolge quasi esclusivamente attività di ricerca (titolari di assegni e ricercatori) forma la base: sono il 51,6%. La distribuzione degli accademici per settori scientifico-disciplinari non è omogenea: in percentuale, il maggior numero di docenti e ricercatori afferisce all’area delle Scienze mediche (16,3%) mentre appena il 2% afferisce all’area Scienze della terra. La composizione di ciascuna area per qualifica evidenzia, inoltre, che nelle aree di Scienze giuridiche e di Scienze economiche e statistiche circa il 57% del personale docente e ricercatore è costituito da professori ordinari ed associati, mentre ai Scienze biologiche i ricercatori ed i titolari di assegni di ricerca rappresentano poco più del 60% del personale. L’età media? È pari a 52 anni: si va dai 59 anni dei professori ordinari, ai 52 anni dei professori associati fino ai quasi 47 anni dei ricercatori. Includendo anche i titolari di assegni di ricerca l’età media complessiva scende a 48 anni.

 

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